Gold, solo un cavallo n.4

Doma Etologia
Numero 4
Gennaio 2020
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Prefazione

Questa è la storia di un cavallo. A raccontarla è proprio lui, il cavallo stesso. Gold, figlio di un vincente Mustang americano, ripercorre nei suoi 20 anni i ruoli che l’uomo gli ha attribuito nel tempo: un cavallo da dieci milioni, un cavallo da piegare, un cavallo da macello. Fino ad arrivare a quello che è oggi: finalmente, solo un cavallo. Sta all’uomo, ora, decidere se sia o meno arrivato il momento di ascoltare. Il racconto sarà pubblicato a puntate su questa rubrica.


Capitolo 4 - Un cavallo da snaturare

«Il concetto di mio, e non soltanto nei riguardi di noi altri cavalli, non ha altro fondamento che un basso e animalesco istinto umano che gli uomini chiamano sentimento o diritto di proprietà»
(Cholstomer. Storia di un cavallo, Lev Tolstoj)

A questo punto della mia vita, avevo 4 anni e una forza addosso che sradicava alberi. Il nuovo bipede che mi aveva acquistato non voleva confrontarsi con me, non si mostrava, non gli interessava. Tanto meglio perché, anche grazie a lui, distruggevo e annientavo l’essere umano. Mordevo, calciavo, piombavo al collo di quei folli che mi portavano in campo con l’arroganza di rendermi lo «strumento» per realizzare i loro sogni. Nessuno di loro si preoccupava dei miei sogni, della mia vita che, anno dopo anno, scorreva tra le mura di un box ad aspettare l’ennesimo scontro.

Vedevo, negli occhi dei trainer, la voglia di svuotarmi per dimostrare, l’egoistico desiderio di aggiudicarsi un posto migliore nella classifica del branco, di sorpassare chi aveva abbandonato uscendo sanguinante dal tondino, con le ossa rotte e i lembi di pelle strappati dalla carne.

In molti oltraggiavano, sventravano la mia giovane vita pretendendo da me cose che non potevo, non sapevo e, per natura, non volevo fare. Ero al limite, ogni giorno, la rabbia cresceva dentro di me non appena un bipede volgeva lo sguardo, ribollivo quando il box si apriva, impazzivo di collera davanti a una nuova tortura che doveva opporsi alla mia volontà. La mia voglia di vivere aveva raggiunto la massima espressione possibile. Nessuno, tanto meno un bipede, avrebbe potuto portarmela via.

Avevo 4 anni e avevo visto il peggio che gli uomini potessero mostrare: l’ego, la fretta, la presunzione, l’accanimento, il desiderio di arrivare a costo di calpestare.

Ogni tentativo di addomesticarmi rinforzava di più, dentro di me, il mio essere selvaggio e animale. Ogni frustata innalzava la mia soglia del dolore; ogni speronata allenava il mio costato a sormontare le cicatrici; ogni imboccatura desensibilizzava la mia bocca, la mia lingua, il mio palato; ogni rimedio umano contro la mia natura mi rendeva un guerriero accanito nella battaglia della vita. Un colpo dopo l’altro, nel tentativo di annientarmi mi avevano reso invincibile.

Conoscevo ormai l’inutilità degli strumenti umani: corde, catene, speroni, morsi, torciglioni, fruste, frustini, balze, redini di ritorno. Nulla di tutto questo mi permetteva di essere come volevo, di entrare in simbiosi con un uomo, di muovermi con raffinatezza insieme a un compagno, di spingermi contro il vento assaporando il basculare del collo sostenuto dal ritmo delle gambe.

Imparai che la paura dell’uomo si riflette sulla quantità dei mezzi che usa per nasconderla. L’uomo desidera l’idea di montare a cavallo per riabbracciare la libertà di cui si è privato, ma arriva a toglierla al suo compagno pur di goderne per se stesso. L’annullamento dell’uno per l’elevazione dell’altro. Si può chiamare, questa, libertà?

Continua alla prossima puntata…

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